La pagina dedicata ai diritti delle persone in carcere e, in particolare, all’attività dello Sportello giuridico del carcere di Bollate.
a cura di Claudia Pecorella

L’importanza di “aver visto” nelle parole di una studentessa liceale

Giugno 14, 2025

Condividiamo il testo scritto da una studentessa dell’Istituto Paritario Labor di Milano in seguito alla visita effettuata presso il Carcere di Bollate, insieme ad altri studenti e ai docenti della sua classe. La visita, preceduta da un incontro a scuola dedicato al tema della detenzione delle persone straniere, è stata programmata nell’ambito dell’iniziativa “Fragili negli angoli del carcere”, volta a diffondere la conoscenza della realtà carceraria italiana e a sensibilizzare sulla compressione dei diritti e della dignità delle persone più fragili che si trovano a dover scontare una pena detentiva.

Per maggiori informazioni sul progetto scrivere a: fragili.carcere@gmail.com.

 

 Fragili in carcere

Quando ci hanno detto che avremmo fatto un’uscita didattica al carcere di Bollate, eravamo tutti entusiasti: non è una meta classica per una visita scolastica, tipo un museo o una città d’arte, ma nessuno sapeva realmente cosa aspettarsi. L’idea di entrare in un carcere mi metteva un po’ di ansia, ma allo stesso tempo ero anche curiosa. Mi sembrava una di quelle esperienze che non si fanno tutti i giorni, e che in qualche modo ti lasciano qualcosa dentro.

Appena arrivati fuori dal carcere, l’ambiente era già diverso da quello a cui siamo abituati. L’edificio era grande, grigio, con delle recinzioni alte e delle telecamere ovunque. Si capiva subito che stavamo per entrare in un posto dove la libertà è sicuramente limitata. Già solo questo mi ha fatto riflettere: noi tutti viviamo la nostra vita senza renderci conto di quanto siamo fortunati ad essere liberi, a poter decidere ogni giorno cosa fare, dove andare, chi vedere. Per chi sta dentro un carcere, invece, tutto questo non esiste più.

Durante la visita abbiamo camminato per i corridoi, visto alcune aree del carcere e ascoltato chi ci spiegava come funziona la vita lì dentro. Una cosa che mi ha colpito molto è stato vedere che il carcere di Bollate è molto diverso da quello che mi immaginavo. Pensavo di trovare un ambiente molto rigido, severo, freddo, e invece ho notato che c’è un’attenzione particolare verso il reinserimento delle persone. Questo mi ha fatto molto riflettere.

Molto spesso si pensa che le carceri debbano solo servire a punire chi ha sbagliato, ma dopo questa esperienza, secondo me, la funzione più importante dovrebbe essere quella di rieducare. Penso che una persona che ha sbagliato, se davvero vuole cambiare, deve essere messa nelle condizioni per farlo. E se lo Stato non offre questa possibilità, allora non si può pretendere che quando queste persone usciranno, saranno migliori. Anzi, spesso succede il contrario: chi esce peggiora, ed è proprio perché in carcere non è stato fatto un lavoro vero sul cambiamento. Bollate, almeno da quello che ho potuto vedere io, cerca di offrire qualcosa in più. Non è solo un posto dove scontare una pena, ma dove si può anche provare a ricostruirsi. C’è ordine, ci sono regole, ma anche attività, lavoro, percorsi formativi. Non è una passeggiata, ci mancherebbe, ma è un modo più umano e intelligente di gestire la giustizia.

Io credo che tutti noi, almeno una volta nella vita, dovremmo confrontarci con questa realtà. È facile parlare di carcere, di giustizia, di colpe e di punizioni, stando seduti sul divano o davanti al cellulare. Ma è un’altra cosa vedere con i propri occhi come si vive davvero lì dentro. Non sto dicendo che dobbiamo compatire chi ha commesso dei reati, ma dobbiamo imparare a guardare le cose da più punti di vista.

Quello che mi ha colpito più di tutto è stato rendermi conto di quanto sia fragile il confine tra “noi” e “loro”. Chi sta in carcere non è un mostro, è una persona. A volte basta una scelta sbagliata, un momento difficile, una compagnia sbagliata, e la vita ti cambia per sempre. Nessuno è immune dagli errori. Noi pensiamo sempre “a me non succederebbe mai”, ma nessuno può davvero saperlo.

Un’altra cosa che ho capito è quanto sia importante l’educazione. Se una persona cresce in un ambiente dove non ha opportunità, dove magari la famiglia non c’è o non funziona, dove non c’è un’istruzione solida, è molto più facile cadere in situazioni sbagliate. Allora forse prima ancora di pensare a costruire più carceri, bisognerebbe costruire più scuole, più spazi per i giovani, più occasioni per scegliere un’altra strada.

Uscita dal carcere mi sentivo diversa. Avevo la testa piena di pensieri. Mi sono sentita fortunata, ma anche un po’ in dovere. Perché chi ha la possibilità di studiare, di scegliere, di vivere una vita serena, ha anche la responsabilità di fare qualcosa per chi invece questa possibilità non ce l’ha. In conclusione, questa visita è stata davvero significativa. Mi ha fatto crescere e mi ha fatto vedere una realtà che spesso preferiamo ignorare.

Il carcere non è un altro mondo: è parte del nostro. E come tale, va conosciuto, compreso, migliorato. Spero che in futuro sempre più persone possano vivere questa esperienza, perché davvero ti cambia il modo di vedere le cose.

 

Martina Nebuloni

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