
Riflessioni ad alta voce
Oltre il manicomio: la cura “comunitaria” delle persone con disturbi mentali nel solco della Costituzione
di Arianna Carminati*
Premessa
Nel mio intervento, più che analizzare nel dettaglio le proposte di legge all’esame del Parlamento[2], vorrei provare a toccare brevemente alcuni punti della legge Basaglia per provare a fornire alcuni strumenti critici utili ad inquadrare eventualmente queste iniziative di riforma, se esse vadano cioè nel senso promosso dalla 180 ovvero se seguano un percorso diverso o persino inverso.
Parto col dire che la legge 180 del 1978, è un testo breve – di soli 11 articoli, poi quasi del tutto confluiti in tre articoli della legge istitutiva del Servizio Sanitario Nazionale – ma denso e rivoluzionario, tanto sul piano normativo quanto su quello culturale e scientifico. Essa maturò in un periodo di grande fermento segnato dalla messa in discussione del principio di autorità in tutte le sue forme: nella famiglia, nella scuola, nei rapporti di genere, nel mondo del lavoro e, naturalmente, nella medicina.
In poche disposizioni, questa legge ha ribaltato l’approccio tradizionale alla salute mentale, sancendo il superamento dei manicomi e ponendo al centro della cura psichiatrica la persona, la sua dignità e i suoi diritti.
La genesi della legge 180 del 1978
Mi sembra utile richiamare brevemente i lavori che portarono alla riforma. La 180 fu approvata in tempi rapidissimi, il 13 maggio 1978, sull’onda di un imminente referendum abrogativo promosso dal Partito Radicale. Il Parlamento intervenne per scongiurare quel voto popolare dall’esito incerto, che mirava ad abrogare la vecchia normativa manicomiale ancora formalmente in vigore, risalente a una legge del 1904 – la cosiddetta “legge Giolitti”. Quest’ultima concepiva la malattia mentale come problema di ordine pubblico e ne delegava la gestione al Ministero dell’Interno, con un approccio puramente custodialistico e segregante. L’ospedale era strutturato come istituzione totale, deputata alla vigilanza di persone che il legislatore definiva “alienati” e che venivano custodite nei manicomi perché considerate aprioristicamente pericolose per sé e per gli altri, ovvero – diceva la legge – di “pubblico scandalo”: soggetti da segregare e da nascondere alla vista dei c.d. normali. La “legge Giolitti” non parlava di salute, ma di ordine pubblico.
Dicevo che il pungolo per il suo superamento venne da una proposta referendaria. Vale la pena di soffermarsi sulla portata propulsiva dello strumento referendario: il popolo in quell’occasione non si espresse sul quesito perché la pressione sociale e politica spinse il legislatore ad intervenire prima. Allo steso modo, nello stesso anno, su impulso di un altro referendum, veniva approvata anche la legge 194 sull’interruzione volontaria di gravidanza. I referendum nel nostro paese, in quegli anni e in altre occasioni, sono stati strumenti decisivi per sbloccare situazioni di stallo in materia di diritti civili. È opportuno ricordarlo oggi, in vista della nuova tornata referendaria che ci vedrà impegnati come elettori l’8 e 9 giugno ad esprimerci direttamente su temi fondamentali come i diritti dei lavoratori e, soprattutto, in materia di acquisto della cittadinanza, con un referendum che mira ad attenuare i notevoli ostacoli giuridici e pratici che impediscono a molte persone di entrare a far parte a pieno titolo nella comunità dove vivono.
La legge 180 si ricorda normalmente come “legge Basaglia”, ma, per tornare ai lavori preparatori, la proposta di legge fu invero presentata da un parlamentare, l’on. Bruno Orsini (DC), psichiatra, ed ebbe il pieno sostegno del Governo allora in carica (presieduto da Giulio Andreotti) e della Ministra della sanità Tina Anselmi. Il testo venne approvato in pochi giorni dalle commissioni di Camera e Senato in sede deliberante, grazie al consenso trasversalmente espresso dalle forze parlamentari: anche questo fu segno della forza dell’azione politica che muoveva dal basso fino al punto di rompere i tradizionali schieramenti partitici.
La legge 180 è però indubbiamente legata al nome di Basaglia perché non nacque in un laboratorio normativo, ma dall’esperienza clinica di Franco Basaglia e del movimento che lo affiancava. Era una legge “sperimentale”, ma già sperimentata: frutto del lavoro sul campo e dell’analisi dei risultati ottenuti nelle sedi manicomiali di Gorizia, Trieste, Arezzo. Affermava Basaglia: «Il lavoro pratico era la nostra carta di credito».
I punti fondamentali della riforma del 1978
I punti fondamentali attorno ai quali si strutturò quella riforma sono essenzialmente 5:
- La volontarietà dei trattamenti sanitari, riconosciuta come diritto individuale inviolabile;
- La valorizzazione della relazione fiduciaria tra medico e paziente, anche in ambito psichiatrico;
- La distinzione tra trattamento obbligatorio (es. vaccinazioni) e trattamento coattivo, forzosamente imposto e quindi lesivo oltre che della libertà di cura, della libertà personale, e che come tale richiede l’attivazione delle garanzie dell’art. 13 della Costituzione a presidio dell’inviolabilità della persona;
- La procedimentalizzazione del trattamento sanitario coattivo, con precise garanzie: l’intervento dell’autorità sanitaria (nella figura del sindaco, su prescrizione medica), la convalida da parte del giudice tutelare, la necessità di considerare il ricovero coatto come extrema ratio;
- La deistituzionalizzazione della cura psichiatrica, con la progressiva chiusura dei manicomi e il trasferimento dell’assistenza psichiatrica ai servizi territoriali, per una presa in carico della persona negli ambienti di vita e sociali in cui è già inserita
L’attuazione della legge 180
La 180 era ed è una legge esigente. Lo è anzitutto perché si tratta di una legge progressiva, come progressivo è tutto il diritto sociale alla salute. Essa infatti richiede un’implementazione costante e coerente nel tempo, che passa attraverso investimenti, non soltanto finanziari (che sono certamente indispensabili), ma anche investimenti in termini di organizzazione delle strutture, di formazione degli operatori, e non ultimo richiede un investimento culturale e sociale che coinvolga tutta la comunità chiamata ad accogliere e includere le persone con disagio o disturbo mentale. Per evitare la reclusione manicomiale occorre infatti che la società non abbia paura del disturbo mentale. L’attuazione della 180 richiede inoltre di mantenere uno sguardo critico sulle disuguaglianze che la nostra società produce e sulle nuove forme di marginalità.
Il disagio mentale ha assunto oggi dimensioni inedite: si diffonde tra i giovani, in relazione a stili di vita e a nuove dipendenze; riguarda gli anziani, a causa delle demenze legate all’invecchiamento. L’attuale organizzazione dei CSM non è sempre in grado di rispondere a queste sfide, ad esempio di definire diagnosi e terapie in un contesto ormai multietnico e multiculturale. Diceva Basaglia: «ci sono due psichiatrie: una per i ricchi e una per i poveri». A questa distinzione potremmo aggiungere oggi: esiste una psichiatria per gli italiani e una, inadeguata, per gli stranieri.
Occorre inoltre sottolineare che la marginalità che provoca o aggrava la malattia mentale può anche essere frutto di trattamenti giuridici degradanti, come quelli adottati per esternalizzare la gestione dei migranti fuori dalle nostre frontiere o le detenzioni amministrative prodromiche ad una del tutto eventuale espulsione degli immigrati irregolari. Lo scorso ottobre, insieme al Forum salute mentale, abbiamo dedicato un seminario presso il Dipartimento di Giurisprudenza di Brescia sul tema della salute dei migranti rinchiusi nei CPR. Da quel confronto è emerso come il sistema sanitario non solo non curi adeguatamente, ma che ci sono anche persone che si ammalano per mano dello Stato.
Per questo, lo ribadisco, è importante partecipare in particolare al prossimo referendum sulla cittadinanza, per dare un segno visibile alle istituzioni. Come ci insegna Basaglia, l’esclusione fa ammalare; l’inclusione, su ogni fronte – sociale, istituzionale, giuridico – è terapeutica. A tal proposito non si ricorda mai abbastanza che la 180, all’art. 11, restituì alle persone affette da malattia mentale anche il diritto elettorale, che prima era loro negato, ripristinando per costoro il diritto di votare e quindi di essere partecipi attivi della comunità politica e delle scelte di governo.
Il consenso all’atto medico come diritto fondamentale della persona
La 180 non si è limitata ad abolire i manicomi, ma ha modificato radicalmente il paradigma culturale, affermando i diritti di libertà delle persone affette da disturbo mentale. È infatti la prima legge a ribadire la volontarietà dell’atto medico, superando l’impostazione paternalistica della medicina per passare ad una impostazione di tipo relazionale e condivisa. È una legge che sancisce come ogni atto medico, poiché riguarda il corpo e il benessere delle persone, è un atto costituzionalmente rilevante.
Riforme successive si sono inserite coerentemente nel solco tracciato a partire dal 1978. Si pensi, ad esempio, alla legge 81 del 2014 che ha previsto la definitiva chiusura degli ospedali psichiatrici giudiziari o alla fondamentale legge 219 del 2017 sul consenso informato e le disposizioni anticipate di trattamento. Quest’ultima, in particolare, affronta anche il delicato tema del consenso dell’incapace, ribadendo il diritto della persona – anche quando in grave stato di infermità mentale – a ricevere informazioni comprensibili, in modo da poter esprimere la propria volontà alla cura. Mi pare significativo ricordare che prima della legge del 2017, la Corte Costituzionale aveva già riconosciuto il principio del consenso informato come principio costituzionale alla base della relazione di cura, e che lo aveva fatto con due sentenze, del 2002 e del 2008, che in entrambi i casi originavano proprio da questioni riguardanti la disciplina dei trattamenti sanitari in ambito psichiatrico.
Ciò premesso, il principio volontaristico dev’essere necessariamente declinato tenendo conto della peculiare condizione in cui si trova il soggetto affetto da disturbi psichici. La legge del 2017 sul consenso informato da questo punto di vista è illuminante quando parla di «tempo della relazione come tempo di cura», e lo prescrive per tutti, non solo in ambito psichiatrico, dove però è evidente che l’indicazione si fa più cogente. Se il tempo della relazione è tempo di cura allora, a ben vedere, il soggetto che deve essere “paziente” per così dire è il medico, è l’operatore sanitario che deve avere pazienza, dedicando il suo tempo al malato. Naturalmente, deve essere messo nelle condizioni di poterlo fare, condizioni organizzative e di modalità di erogazione del servizio, che non può essere strutturato come una sorta di cottimo per ovviare al problema delle liste d’attesa. E inoltre, se deve nascere una relazione fiduciaria è necessario che il paziente possa aver un interlocutore stabile e non essere costretto a interfacciarsi ogni volta con un diverso medico di turno. Infine, una relazione impostata sulla fiducia richiede che la fiducia sia reciproca: la persona deve avere fiducia nel medico ma anche viceversa, il medico deve avere fiducia nella persona nella convinzione profonda che la miglior cura per ciascuno va trovata insieme
La psichiatria è un ambito complesso, delicatissimo, dove i principi costituzionali vengono messi duramente alla prova. In un certo senso è però anche la cartina al tornasole del nostro sistema sanitario: un sistema che sa curare senza mortificare le persone con disturbi mentali, che riconosce loro dignità e che offre possibilità di affermazione esistenziale, è davvero un sistema universalistico in grado di proteggere tutti. In definitiva, è in questi territori di di confine della medicina e della società che si possono progettare comunità più giuste e inclusive, oppure, al contrario, è proprio qui che possono incubare i germi di una malattia collettiva, che finisce prima o poi per intaccare il tessuto democratico nel suo insieme.
[*] Testo dell’intervento esposto nel Seminario «Salute Mentale: Bene Comune. Pratiche di pace diritti e libertà», Salone Vanvitelliano di Palazzo Loggia, Brescia, 13 maggio 2025.
[2] Il Senato ha avviato davanti alla X Commissione Affari sociali, sanità, lavoro pubblico e privato, previdenza sociale, l’esame di 4 progetti di legge in tema di salute mentale, che affrontano, con impostazione molto diversa fra loro, i problemi legati all’organizzazione dei servizi sanitari territoriali per prevenire e curare le persone con disagio o disturbo mentale. Nel momento in cui si scrive, il progetto di legge presentato dal gruppo Fratelli d’Italia (S. 1179) è stato assunto come testo base dei lavori della Commissione. Esso si caratterizza, rispetto agli altri, per la prevalente attenzione al tema della sicurezza (per sé e per gli altri) delle persone con disabilità mentale, al punto da contemplare espressamente la possibilità di attuare forme di contenzione fisica, farmacologica e ambientale. Gli altri progetti di legge trattati congiuntamente sono stati presentati, rispettivamente, da senatori del Partito Democratico (S. 734); del gruppo Alleanza Verdi Sinistra italiana (S. 938); del gruppo Lega Salvini Premier (S. 1171).
*Associata di diritto costituzionale e pubblico, Università degli studi di Brescia