di Ernesto Aghina, Beniamino Deidda, Cosimo D’Arrigo, Giacomo Fumu, Giovanna Ichino, Giuseppe Meliadò e Raffaele Sabato
Valerio Onida è stata una persona straordinaria, nel senso letterale del termine.
Abbiamo avuto il privilegio di conoscerlo e di condividere con lui (e con Massimo Confortini, Giulio Garuti, Giovanni Guzzetta e Giorgio Spangher), il breve ma intenso quadriennio di fondazione ed esordio della Scuola superiore della magistratura, che lo vide come Presidente: Valerio era dotato di qualità che appaiono talora inconciliabili fra loro e che in lui coesistevano, rendendolo una persona assolutamente non convenzionale.
Era un uomo mite, dotato di una grande umanità e capacità di ascolto delle ragioni altrui e, d’altro canto, era testardo e intransigente quando riteneva che fossero in gioco dei diritti da difendere e quando intendeva sostenere fino in fondo le tesi in cui credeva .
Gentile e sorridente con tutte le persone che incontrava, dalle più semplici alle più erudite, ma anche capace di notevole severità e rigidità, quando riteneva di trovarsi in presenza di scorrettezze o di persone che non facevano bene il loro dovere.
Aveva un grande rispetto per le istituzioni democratiche, sia sotto il profilo sostanziale che formale e protocollare, e aveva cura nel mantenere ottime relazioni con le stesse, ma allo stesso tempo non tollerava interferenze indebite da parte dei rappresentanti di altre istituzioni sulle decisioni dell’istituzione per cui operava.
Era sempre puntuale ed estremamente rispettoso degli orari prefissati per evitare inutili sprechi di tempo (nelle riunioni del comitato scientifico mal tollerava le digressioni o la distrazione dei componenti) e però aveva una disponibilità senza limiti nel dedicare il suo tempo a chiunque gli chiedesse un consiglio, un aiuto personale o giuridico, come ben ricordano i giovani magistrati in tirocinio presso la Scuola.
Era uno studioso e un uomo di grande uomo di cultura, ma era anche molto concreto e capace di organizzare il lavoro suo e altrui e di parlare delle cose più semplici della vita quotidiana; sapeva scherzare su tutto ed era dotato di grande ironia e autoironia.
Quanto segue è testimonianza corale di un ricordo affettuoso e commosso di un’esperienza che, forse anche in ragione delle difficoltà che abbiamo dovuto affrontare insieme, ci ha unito in un vincolo di amicizia che ha valicato il mandato.
Abbiamo conosciuto tardi Valerio, in occasione dell’insediamento del comitato direttivo della SSM, il 24.11.2011.
Naturalmente, come tutti quelli che masticano un pò di diritto, sapevamo chi era, quanto fosse raffinato il suo modo di accostarsi alla Costituzione e anche eccezionale il suo contributo agli studi di diritto pubblico e costituzionale.
Il nostro primo contatto fu di conseguenza cauto e rispettoso, preoccupati come eravamo di non essere all’altezza del confronto con un personaggio di tale livello.
Esitazioni tutte evaporate rapidamente: Valerio era capace di annullare ogni soggezione, aveva una semplicità di modi e un calore umano che mettevano a proprio agio ogni interlocutore.
La cortesia sorridente, il suo sguardo rasserenante, i toni pacati con cui si confrontò con noi fin da subito fugarono ogni timore o preoccupazione e, nello stesso tempo, accrebbero l’attesa ed il desiderio di affrontare insieme a lui le difficoltà che il nostro agire avrebbe dovuto incontrare.
Era così Valerio Onida, naturalmente gentile, disponibile al dialogo “colto” ed alla confidenza amichevole; ma anche rigorosamente “essenziale”, in tutte le sue manifestazioni.
Fu subito chiaro che Valerio era perfettamente consapevole della difficoltà di far partire un’esperienza del tutto nuova per la formazione dei magistrati nel nostro paese, che avesse un carattere e un respiro ‘europeo’.
Nei quattro anni della sua direzione non lo abbandonò mai l’idea che si trattasse di un’impresa da “pionieri”, piena di difficoltà e incerta nel suo esito.
Sapeva bene che il C.S.M. non aveva ancora del tutto ‘elaborato il lutto” per la perdita di titolarità in materia di formazione dei magistrati, ma, con la signorilità che lo distingueva, creò subito un clima di collaborazione e di fiducia, che per lui voleva dire assoluto rispetto delle competenze di ciascuno, fermezza nella difesa dell’autonomia della Scuola ed esplicito riconoscimento delle prerogative del C.S.M. previste dalla Costituzione.
Come ricordato in precedenza, il primo comitato direttivo della Scuola fu costituito nel novembre del 2011.
Era un atto dovuto anche per garbo istituzionale nei confronti del Ministro della Giustizia, la professoressa Severino, che aveva nominato, dopo varie tribolazioni, anche i componenti di sua competenza.
Ma nessuno avrebbe scommesso un soldo sul fatto che la Scuola decollasse davvero e in molti, forse, se ne auguravano il definitivo naufragio. Lo stesso C.S.M., che aveva organizzato la cerimonia di insediamento, per oltre sei mesi si guardò bene dal collocarci fuori ruolo (come espressamente previsto dalla legge), forse opinando che la Scuola non sarebbe mai partita.
Non possedevamo null’altro che il decreto di nomina. Niente sede, niente fondi, niente personale e, soprattutto, niente segretario generale, senza il quale non potevamo attivare le sedi, sottoscrivere il contratto di tesoreria, assumere il personale. Ma per nominare il segretario generale era necessario approvare lo statuto della Scuola.
Il giorno stabilito per la riunione “carbonara” (ci adunavamo ospiti informali del Ministero e di una gentilissima dottoressa che ci dava una mano per verbalizzare le sedute) era il 6 febbraio 2012.
La sera precedente fu diramata un’allerta meteo. A Roma venne disposta la chiusura di tutti gli uffici pubblici. Noi provenivamo da ogni parte dello Stivale e si prevedevano gravi disagi per i viaggiatori. Con un rapido giro di telefonate decidemmo che era inevitabile differire la convocazione.
Avevamo fatto i conti senza l’oste: “Non se ne parla neanche per scherzo! – esclamò Valerio – due fiocchi di neve non hanno mai fatto male a nessuno!”.
E poi, incredulo come San Tommaso, aggiunse: “È il solito allarmismo giornalistico. Vedrete che sarà tutto aperto”.
La mattina dopo, in un clima siberiano, arrivammo in una Roma spettrale, disabitata, costellata da cumuli di neve ai bordi delle strade. Ma, come aveva previsto Valerio, che evidentemente aveva avuto rassicurazioni da colà dove si puote ciò che si vuole, non nevicava più. Meno ben informati, o forse più opportunistici, erano stati al Ministero: via Arenula era sprangata. E al Palazzo dei Marescialli le cose non andavano meglio: c’era solo il piantone che non aveva l’autorizzazione a farci entrare.
Valerio non si perse d’animo e bussò alle porte della Consulta, nella convinzione che almeno questa non si sarebbe fatta intimidire dalle previsioni allarmistiche di qualche meteorologo troppo zelante. Ennesima delusione: “Queste cose quando c’ero io non sarebbero mai accadute!”, commentò stizzito.
Insomma, eravamo un manipolo di spaesati che scorrazzava inutilmente per Roma – in cuor nostro emuli di Fogar e del suo fedele Armaduk – guidati da un Presidente pervicacemente deciso ad approvare lo statuto ad ogni costo, quando Giuseppe Meliadò si fece timidamente avanti: “Possiamo provare a casa mia. Non ho sedie per tutti, ma almeno stiamo al caldo”.
Entrammo quindi in quell’appartamento che, forse complice la felicità di aver trovato riparo, ci sembrò ben più accogliente e, soprattutto, molto meglio arredato di quanto il padrone di casa non avesse lasciato intendere. D’altro canto, conoscendo il suo gusto per l’arte (che successivamente trovò modo di esprimersi al meglio nella scelta dei lampadari d’epoca e dei grandi quadri degli Uffizi che tuttora arredano le stanze di Castelpulci), non poteva essere diversamente.
Così venne approvato lo statuto della Scuola superiore della magistratura.
Grazie Valerio. Non per il fatto in sé – lo statuto l’avremmo potuto tranquillamente approvare la settimana successiva – ma per una lezione di vita che, dietro l’apparente caparbietà, insegna come l’adempimento dei doveri d’ufficio non debba subire deroghe, mai.
Valerio pretendeva un estremo rigore nella gestione delle risorse pubbliche, perché i soldi dei cittadini andavano spesi bene e non sprecati
Per noi del direttivo era fonte di qualche amichevole sorriso quel suo essere attentissimo, al limite della pedante pignoleria, al bilancio della Scuola nella precisa ottica del contenimento della spesa di qualsiasi tipo gravante sull’ente.
Il suo personale rigore morale lo portava pure ad escludere in radice che il servizio potesse risolversi in qualsiasi forma di comodità superflue per chi al servizio partecipasse in qualunque modo: e dunque componenti del Comitato direttivo (lui per primo, ex Presidente della Corte costituzionale), docenti, partecipanti ai corsi viaggiavano sui treni tutti in seconda classe ed avevano precisi (e contenuti) limiti di spesa per il vitto. Regole inderogabili, al cui rispetto prestava la massima attenzione.
D’altronde Valerio era estremamente sobrio nella sua vita privata (viaggiava con i mezzi pubblici, o con le biciclette e le automobili in car sharing).
Ci piace rievocare un episodio divertente, perché proprio sul tema per il quale mostrava particolare sensibilità e rigore, organizzammo un riuscito scherzo al Presidente.
Si era tenuto un importante corso in comune con il Dipartimento Informazioni per la Sicurezza, che rappresentava un inedito raccordo di conoscenza fra magistratura e servizi segreti, che si era svolto in campo “neutro” (Scuola delle forze di polizia) sicché non si poté usufruire del normale servizio mensa della nostra Scuola, la quale dovette regolare la quota di sua competenza della fattura emessa dal fornitore del catering.
Preparammo un documento fiscale falso con l’indicazione di un importo spropositato da portare all’approvazione del Comitato direttivo e lo sottoponemmo al Presidente.
La sua reazione fu quella che si aspettava: ci rimproverò più che aspramente per l’eccessiva spesa e chiese subito con una certa energia che gli indicassimo nome e recapito telefonico del fornitore per informarsi, protestare e chiedere la riduzione del conto: e lo avrebbe fatto, se sul tablet di uno di noi non fosse improvvisamente comparsa una grande scritta: sei su “Scherzi a parte”.
La tensione del momento si stemperò in un disarmante sorriso.
Il suo rigore amministrativo confliggeva con un’enorme generosità personale sia nel finanziare buone cause (sono innumerevoli le iniziative, che ha co-fondato o finanziato, a favore della società civile, o per la tutela di detenuti o degli immigrati), che nello spendersi gratuitamente per difendere persone indigenti davanti all’Autorità giudiziaria, o per sostenere questioni di principio avanti alla Corte Edu.
La nascita della Scuola fu un percorso ad ostacoli, e Valerio, insieme a noi tutti, non faceva nulla per aggirarne qualcuno.
Decidemmo, pertanto, di iniziare l’attività della Scuola, quando mancava un po’ di tutto, salvo un fermo ottimismo della volontà, da quanto vi era di più difficile: il tirocinio dei MOT, che Valerio preferiva chiamare uditori giudiziari, in quanto per lui il vizio capitale di un magistrato, e tanto più di un magistrato giovane, era l’incapacità di ascoltare.
Arrivarono pertanto i MOT a Scandicci, e noi capimmo subito che vi era aria di sedizione: i loro affidatari, con qualche pregiudizio verso la nascente Scuola, al pari di tanti altri colleghi, avevano detto ai giovani colleghi che a Scandicci avrebbero perso tempo, prezioso per la loro formazione, e che se volevano veramente imparare dovevano stare negli uffici, a confrontarsi con i “veri problemi della giurisdizione”.
La mattina di quel tanto atteso “primo giorno di Scuola” che inaugurò la formazione iniziale vide Valerio vittima di un non lieve incidente: per una caduta accidentale nella camera di albergo, Ernesto Aghina lo accompagnò d’urgenza in ospedale a Firenze, dove gli venne praticata una medicazione per una profonda ferita al capo.
Inutili tutte le raccomandazioni alla prudenza, volle comunque essere presente alla Scuola per portare il suo saluto ai m.o.t. che, partecipi dell’accaduto, lo gratificarono (con tutto il suo “turbante” di bende) con un lungo ed affettuoso applauso.
Facemmo di tutto per accogliere i neo magistrati al meglio, per non trasmettere loro “ansia di prestazione” (anche di questo si lamentavano, oltre che degli alberghi e della locomozione), e a poco a poco cominciarono ad apprezzare, oltre alle serate fiorentine, l’austero Valerio che prendeva la tranvia insieme a loro, la descrizione della storia della villa di Castelpulci, i nostri impareggiabili primi tutori, il piacere di conoscersi e di conoscere, attraverso le narrazioni degli altri, uffici e esperienze tanto diversi fra loro, che facevano costatare come anche per la magistratura valesse la verità scomoda del protagonista delle “Lettere persiane”: “non ho mai creduto che i confini del mio paese fossero i confini della mie conoscenze”.
Sta di fatto che un qualche risentimento covava (perché mai perdere tempo con lo stage nelle carceri? E che ce ne importa se negli altri paesi lo fanno, e addirittura fanno gli stage anche negli studi degli avvocati?) ed un giorno il comitato direttivo ricevette una lettera anonima (inviata anche ad un quotidiano), che in pratica ci accusava di sperperare il denaro dello Stato.
Peggiore accusa non si poteva muovere a Valerio che, senza un attimo di esitazione decise di convocare tutti i ragazzi nella sala grande della Scuola.
Tutti deprecarono l’accaduto, molti restarono silenti, ma per la prima volta ci accorgemmo che il fronte del dissenso stava incominciando a sgretolarsi, che la Scuola stava iniziando a dare i suoi primi frutti, a far passare il suo messaggio di apertura, di confronto e di modernità.
Una ragazza si alzò e disse “noi siamo le cavie della Scuola”, replicò Valerio “voi siete insieme a noi i MOT fondatori”.
E da allora in poi i ragazzi di quel corso, e di quelli immediatamente successivi, si fregiarono del titolo di “MOT fondatori” e Valerio continuò nella guida insieme sapiente, plurale ed aperta all’esterno dell’attività didattica in una fase ancora del tutto sperimentale
Valerio era sempre attento al tema carcerario, praticando “in incognito” e come volontario attività di consulenza giuridica (gratuita) dei detenuti negli istituti penitenziari milanesi.
Le sue visioni quale giurista ancorato al dettato costituzionale in tema di funzione rieducativa della pena, unitamente forse alle sue convinzioni personali di matrice cattolica e progressista, gli costarono anche sofferenze personali allorché volgeva al termine mandato di Presidente della Scuola.
Si verificava infatti un episodio emblematico agli inizi del febbraio 2016, mentre era ormai scaduto da fine 2015 il mandato del Comitato direttivo della SSM. La stessa determinazione della durata del Comitato “Onida” aveva formato oggetto di una polemica istituzionale, culminata in una delibera del CSM del 1 giugno 2015, e che non rievochiamo ma che un giorno si potrebbe separatamente narrare: i componenti del Direttivo avevano accettato l’insediamento nella carica in una cerimonia di fine novembre 2011 – allorché nulla esisteva di ciò che oggi definiamo Scuola – ma i componenti togati erano stati posti a disposizione da parte del CSM, che aveva il potere di decidere, solo nel giugno 2012, mentre i corsi venivano inaugurati, a tempo di record per gli standard italiani nell’institution building, nell’ottobre 2012.
Nel clima tempestoso che ha accompagnato la prima parte della vita della Scuola, per intuibili ragioni, il CSM con la delibera predetta – che il Comitato “Onida” comunque non impugnava – riteneva che il quadriennio decorresse…dalla cerimonia iniziale, così che il Comitato terminasse il mandato quanto prima.
In questa congerie non certo istituzionalmente tranquilla Valerio Onida, pur a mandato scaduto, era ancora entusiasta del lavoro nella formazione dei magistrati. Era però stanco per le difficoltà incontrate.
Era d’altronde reduce da un altro forte sgarbo istituzionale: per ragioni ancora tutte da chiarire il Comitato direttivo presieduto da Onida – che come detto era stato fatto scadere anzitempo a fine novembre 2015 – non era stato tempestivamente sostituito, in modo da rendersi applicabile la nota legge contro la “prorogatio” (n. 444 del 1994), che disponeva la “prorogatio” di soli 45 giorni limitata all’ordinaria amministrazione, dopo di che scattava la tagliola di un severo regime di nullità degli atti. Decorsi i 45 giorni, quindi, solo agli inizi del 2016 fu fatto insediare il nuovo Direttivo, che non poté ricevere un formale passaggio di consegne. Soprattutto, non vi fu alcuna celebrazione e/o cerimonia di ringraziamento.
La relazione quadriennale che, in logica di “rendicontazione”, il Comitato aveva predisposto non poté avere alcuna visibilità. Valerio Onida doveva uscire di scena in silenzio. Come da suo stile, solo privatamente alluse a tale sgarbo e alla sofferenza conseguitane.
Non invidiabile, del resto, era la posizione dei nuovi componenti, chiamati a eseguire una immissione in possesso “da soli”. Onida ritenne di surrogare con una sorta di chiacchierata “privata” a Scandicci, in una sola giornata, al fine di stabilire un contatto con almeno alcune delle persone che sarebbero subentrate; si era poi reso disponibile a presenziare a qualche corso in una logica di transizione. Almeno alcuni dei nuovi componenti del Direttivo soffrivano molto delle condizioni in cui si era collocato il loro rapporto con il CSM (come dirà il presidente Silvestri il 24 novembre 2021 – v. infra).
Si deve al riguardo ricordare che, sempre in virtù della cennata delibera del 1 giugno 2015, i nuovi componenti nominati dal CSM avevano dovuto sottoporre ad esso, in vista della nomina, un “progetto culturale e organizzativo” della Scuola, che illustrasse “i principi e le linee di sviluppo proposte dall’aspirante per la progettazione e lo svolgimento della formazione, anche in relazione alle competenze che spettano al CSM e, dunque, al rapporto di collaborazione istituzionale con l’organo centrale di autogoverno” (sottolineatura aggiunta); un atto questo che, a fronte di chiare norme primarie in tema di autonomia della SSM, fu inteso immediatamente come un actus submissionis, per invertire il trend autonomistico di Onida.
Gli eventi di febbraio del 2016 avrebbero riguardato – guarda caso – proprio il tema dell’autonomia didattica della Scuola.
La legge (d. lgs. n. 26 del 2006) prevede che il CSM e il Ministro della Giustizia forniscano alla Scuola semplicemente “linee programmatiche” (art. 5), non vincolanti, circa il programma annuale di attività, su cui il Comitato direttivo della stessa Scuola delibera autonomamente, posta l’indipendenza dei componenti dagli organi che li hanno nominati (art. 8). Come era oramai consuetudine, pervenute le linee programmatiche, già al finire del 2015 la Scuola, con provvedimento unanime del Comitato direttivo, aveva del resto lanciato e ottenuto anche le domande di partecipazione a tutti i corsi dell’anno da parte dei magistrati, ammessi in base a nota procedura informatizzata.
Tra questi corsi ve ne era uno, calendarizzato nel periodo post-transizione (primi giorni di febbraio 2016) sul tema «Giustizia riparativa e alternative al processo e alla pena».
Il tema era chiaramente innovativo: sei anni fa non c’era certo la consapevolezza attuale sulle problematiche della giustizia riparativa. Vi erano, però, raccomandazioni del Consiglio d’Europa, esperienze di altri paesi e, soprattutto, e ciò contava molto per un Comitato direttivo presieduto da Onida, esisteva un dettato costituzionale arricchito da pronunce della nostra Corte costituzionale, che chiaramente indicavano una tendenza.
Un punto di non ritorno sul tema, in Italia, si era avuto pochi mesi prima della programmazione del corso: il 27 settembre 2015 – in ambienti prossimi a quelli cui culturalmente apparteneva Valerio Onida – su iniziativa di un padre gesuita, Guido Bertagna, e alla presenza dell’arcivescovo di Bologna Matteo Maria Zuppi (nominato dal Papa in questi giorni Presidente della CEI), si era svolto un evento (inserito nell’annuale festival francescano) in cui, ricordandosi la visita di Francesco d’Assisi al sultano d’Egitto al-Malik al-Kamildi, si narrava di un esperimento di giustizia riparativa: vari incontri tra vittime e responsabili della lotta armata degli anni ’70, tra le quali Agnese Moro e Adriana Faranda, che presenziavano a Bologna.
Un mese dopo, nell’ottobre 2015, sempre con Agnese Moro e Adriana Faranda, veniva poi presentato a Milano il volume – “Il libro dell’incontro” – che, possiamo oggi dire con il senno di poi, cambiava la storia d’Italia in argomento.
In esso il predetto padre gesuita Guido Bertagna, con il criminologo Adolfo Ceretti e la giurista Claudia Mazzucato, narravano il cennato ruolo di mediazione da essi svolto negli anni fra vittime e responsabili della lotta armata. Il cambio di paradigma era quello di affiancare al desiderio di “sapere – legittimo, anche a causa di verità giudiziarie spesso insoddisfacenti, come il libro chiariva – anche quello di “capire” (dando ai protagonisti la possibilità di “fare i conti”) il terribile periodo degli «anni di piombo», in un’idea di giustizia che non si esaurisce nella pena inflitta ai colpevoli. L’idea della ricomposizione di fratture, che comunque restano, si ispirava all’esempio del Sud Africa post-apartheid, citandosi anche i predetti testi internazionali sulla giustizia riparativa.
Sulla scia dell’elaborazione del libro, di matrice assai prossima alle convinzioni di Valerio Onida, e di un’ampia preesistente collaborazione della Scuola con i centri di ricerca cui facevano capo Ceretti (il Centro nazionale di Prevenzione e Difesa sociale) e Mazzuccato (il Centro Studi «Federico Stella» sulla Giustizia penale e la Politica criminale), alcuni componenti del Comitato direttivo avevano avuto modo di notare le iniziative di settembre-ottobre 2015, ritenendo imprescindibile che il luogo di elaborazione culturale dei magistrati – la Scuola – non restasse indifferente alla proposta. Di qui la programmazione, per i primi giorni di febbraio 2016, del predetto corso sul tema «Giustizia riparativa e alternative al processo e alla pena».
La predisposizione del corso era nota ovviamente da prima della scadenza del Comitato direttivo presieduto da Valerio Onida. Ma solo una volta insediatosi il nuovo Comitato direttivo, a distanza di pochi giorni dal previsto inizio del corso, sulle mailing list di magistratura nascevano polemiche, che venivano subito riflesse sulla stampa. Intervenivano inizialmente (in maniera che, sia detto chiaramente, per noi che scriviamo è del tutto comprensibile) magistrati che avevano avuto congiunti o colleghi vittime degli anni di piombo, trovando inaccettabile l’invito a Scandicci di ex terroristi come la Faranda e chiedendosi perché, oltre alla Moro, non fossero state invitate anche vittime che avessero un approccio non perdonista.
Intervenivano poi anche non magistrati: Elisabetta Casellati, allora consigliere laico del Csm, riteneva, come riportato da “Il Sole 24 ore” il 3 febbraio 2016, che “su un’iniziativa così importante ci sarebbe voluta più attenzione e meno leggerezza”.
Se tutto ciò era comprensibile, quello che invece apparse incomprensibile, in particolare a Valerio Onida, fu ciò che avvenne a livello istituzionale, a fronte del principio di autonomia della SSM: il Comitato di presidenza del CSM, con una inedita iniziativa, esprimeva – come sempre riportato dalla predetta fonte di stampa – «dissenso per la decisione della Scuola della magistratura, appresa da notizie di stampa, di invitare a un prossimo incontro di formazione dei magistrati italiani ed europei Adriana Faranda e Franco Bonisoli». L’auspicio era quindi che il nuovo Comitato direttivo della Scuola volesse “rivalutare l’opportunità di tale scelta”.
Come sempre riportato nel predetto articolo di stampa, Valerio Onida difendeva la scelta della Scuola; come indicato dall’articolista, Onida “non vede[va] alcuno scandalo nell’invito perché si tratta[va] di un corso sulla giustizia riparativa «in cui si inserisce il racconto di un’esperienza particolare e molto seria, che ben si presta a stimolare la riflessione in una sede come quella della Scuola della magistratura». “Servirà per «parlare di una esperienza che ha coinvolto diverse persone, tra parenti delle vittime e colpevoli, che da anni si sono ritrovati per parlare e comunicare su base volontaria». “Chi protesta, conclude Onida, sembra pensare che «la Scuola della magistratura non possa essere aperta a ”simboli del male”, ma questa è una concezione feticistica».”
La stampa riportava nei giorni successivi come finì la cosa: il nuovo Comitato direttivo della Scuola sottolineava in una nota di aver preso atto “delle posizioni espresse, anche con dolore, da numerosi magistrati e familiari delle vittime sull’inopportunità di coinvolgere nella formazione della Scuola persone condannate per gravissimi reati di terrorismo, nell’ambito del corso ‘Giustizia riparativa ed alternative al processo e alla pena». Questa iniziativa «è ormai inevitabilmente condizionata – prosegue la nota – nella sua attuazione dalle discussioni delle ultime ore, che hanno visto anche l’intervento del Comitato di presidenza del Consiglio superiore della magistratura». «Pur dovendo precisare che l’incontro non configurava un’attività didattica dei signori Bonisoli e Faranda, ma solo la testimonianza di un percorso riparativo, i cui protagonisti sono le vittime dei reati, e pur riconfermando la volontà della Scuola di investire nella formazione della giustizia riparativa”, il Comitato direttivo decideva – concludeva il comunicato – di annullare l’incontro, ritenendolo inopportuno.
I magistrati di sorveglianza presenti al corso, di fronte all’annullamento della sessione, reagirono con una muta protesta.
Il vulnus inferto alla Scuola, e in particolare a Onida, non fu affatto seguito da un affossamento del dibattito sulla giustizia riparativa. Semmai, il contrario.
Un anno dopo il libro fu presentato in Senato, alla presenza delle stesse persone (ex terroristi) che non riteneva potessero presenziare in un altro luogo “istituzionale” come la Scuola. Presenziarono anche ministri della Repubblica.
Oggi la giustizia riparativa, grazie a iniziative della Ministra Cartabia, è diventata addirittura la priorità della Presidenza italiana del Consiglio d’Europa nel 2022, mediante un apposito vertice ministeriale di 47 Stati a Venezia.
Ma ciò che più conta è che Valerio Onida, pur ormai malato, è riuscito il 24 novembre 2021 a sentirsi chiedere scusa per quello sgarbo.
Onida presenziava – alquanto provato nel fisico ma lucidissimo ed energico nella mente – alla cerimonia di celebrazione, a Scandicci, del decennale dalla fondazione della Scuola ove, alla presenza del Capo dello Stato Sergio Mattarella e di nuovi componenti sia del CSM sia della SSM stessa, il tempo trascorso consentiva di porre gli eventi del 2016 nella giusta prospettiva.
Ciò è avvenuto attraverso le nobili parole del prof. Gaetano Silvestri, successore di Valerio Onida sia nella presidenza della Consulta sia in quella della Scuola, il quale dedicava all’episodio che stiamo narrando la massima parte del suo intervento in quella sede, traendone spunti sia sui compiti della Scuola sia sulla collaborazione CSM-SSM. Opportunamente la SSM ha ripubblicato il link al video del decennale per commemorare Onida nel giorno della sua scomparsa: invitiamo tutti ad ascoltare sia Onida sia Silvestri (oltre gli altri interventori).
Circa l’episodio narrato il presidente Silvestri ricordava come egli e il suo Comitato direttivo fossero appena “entrati in funzione”, senza aver fatto in tempo a “guardar[si] intorno”, allorché si verificò la “vicenda del corso sulla giustizia riparativa” e arrivò loro l’“ukaze”, il “precetto del Comitato di presidenza del CSM” che “intimava a non realizzare [il] corso”, che aveva l’”intento di percorrere vie nuove” manifestando un “atto di autonomia e di indipendenza della Scuola che intendeva realizzar[lo]”.
Gaetano Silvestri dava atto a Onida che nella “intimidazione” vi erano “remore … ampiamente superate o in via di superamento”, e traeva conferma dagli eventi del 2016 di una visione criticabile della Scuola come “coda interna della magistratura, ancella subalterna all’organo di garanzia” e di una “idea della giustizia penale” quanto meno “non aggiornata, per usare un eufemismo”, entrambe “botte formidabili all’indipendenza della Scuola”.
Ammetteva che il comitato direttivo da lui presieduto aveva fatto “un passo indietro che probabilmente oggi non verrebbe fatto”, che gli “costò moltissimo”, con “sofferenza nel dover cedere di fronte a quella invasione violenta”. Organizzare il corso sulla giustizia riparativa configurava “un merito della Scuola”, e il suo annullamento “un demerito di cui [egli] si assum[eva] la responsabilità”.
Valerio è stato un punto di riferimento importantissimo per tutti quanti hanno avuto la fortuna di incontrarlo e di lavorare con lui ed è stato capace di trasmettere l’ esempio di una vita piena di valori e di principi da non disperdere. Nonostante la malattia, fino a quando le forze glielo hanno consentito, non si è mai risparmiato ed ha dedicato agli amici , alla Scuola e alle sue altre attività tutte le energie disponibili e sempre con lo stesso entusiasmo, ad esempio, prendendo parte, solo poche settimane prima di morire, alla tavola rotonda finale del Progetto europeo Re Justice dell’ Alta Scuola Federico Stella e della SSM sulla giustizia riparativa, o, ancora, dando il suo prezioso contributo nelle riunioni dello Sportello giuridico della Casa di reclusione di Bollate .
Crediamo che l’opera di Valerio Onida abbia avuto una straordinaria importanza per la definitiva affermazione dell’autonomia della Scuola Superiore della Magistratura e per le sorti della intera Magistratura italiana. E questo si deve alla sua visione straordinariamente ampia, alla finezza del suo pensiero e alla capacità di non fermarsi di fronte alle tante difficoltà.
Tuttavia Valerio non è stato solo uno straordinario giudice e Presidente della Corte Costituzionale, un professore universitario amato dai suoi allievi, un avvocato autorevole ed apprezzato: è stato anche un appassionato partecipante alla vita civile e, in senso ampio, politica del suo tempo.
Non si è mai tirato indietro di fronte alle battaglie più impegnative, specialmente di fronte a quelle in difesa della Costituzione.
Quando, pochi mesi dopo la fine dell’esperienza alla Scuola della magistratura, si dovette affrontare la campagna referendaria per la proposta “renziana” di modifica di gran parte della Costituzione, iniziò a girare l’Italia con l’energia che lo ha caratterizzato fino alla fine, spiegando con la consueta pacatezza e l’inimitabile finezza giuridica, che quella riforma avrebbe snaturato la nostra Costituzione, forse il più grande amore della sua vita
Abbiamo voluto bene al nostro Presidente, reincontrandolo dopo la ripresa dell’attività giudiziaria, e lo ricorderemo così, capace di battersi con giovanile energia per le cose in cui credeva, e non potremo mai dimenticare la sua mitezza (impressa nel suo timido sorriso che lo ha sempre accompagnato e che resta scolpito in tutte le sue immagini e nella nostra memoria) che, insieme alla fermezza sui principi, ne faceva una persona memorabile.
Vogliamo ricordare l’ultimo messaggio che inviò a tutto il comitato direttivo, l’ultimo giorno della sua attività (il 9.1.2016):
Dong! Dong! Dong! Dong! Dong! Dong! Dong! Dong! Dong! Dong! Dong! Dong! Ecco, la nostra forza deliberante svanisce……La carrozza diventa zucca (zucca gialla, buona!) e chi troverà sulla scala una scarpina di cristallo (o dodici scarpine di cristallo?) si domanderà dove è il piede che la calzava. Dodici, numero magico: sei G, una E, una C, una R, una B, un M, una V. Arrivederci!”